Professor Tarro, la sua presa di coscienza animalista si è fatta largo da un evento squisitamente personale e, se vogliamo, sentimentale…Venerina.
Quando incontrai Venerina era il 1972; lo ricordo come se fossi oggi.
Tornai dall'Olanda, dove avevo partecipato a un simposio scientifico; stanco morto, ero appena entrato a casa che lei mi accolse con un “Miao” pieno d’irritazione, come se avessi fatto tardi a prepararle la cena. Come tutti i pignoli, ho la fisima di controllare la chiusura di tutte le finestre prima di uscire e, sbalordito, stavo per domandarmi da dove diavolo fosse entrata quella gatta che quella esplose un altro “Miao”. Irritato, mi guardai intorno per decidere il da farsi. Una gatta: figuriamoci! Con tutti gli impegni e i congressi che mi occupavano fuori casa, di certo non avrei trovato neanche un minuto per... Comunque, mi ricordai, in frigorifero c'era ancora una scatoletta di tonno. Ma sì. Una bella mangiata di tonno e poi “quella è la porta”.
Tornai dall'Olanda, dove avevo partecipato a un simposio scientifico; stanco morto, ero appena entrato a casa che lei mi accolse con un “Miao” pieno d’irritazione, come se avessi fatto tardi a prepararle la cena. Come tutti i pignoli, ho la fisima di controllare la chiusura di tutte le finestre prima di uscire e, sbalordito, stavo per domandarmi da dove diavolo fosse entrata quella gatta che quella esplose un altro “Miao”. Irritato, mi guardai intorno per decidere il da farsi. Una gatta: figuriamoci! Con tutti gli impegni e i congressi che mi occupavano fuori casa, di certo non avrei trovato neanche un minuto per... Comunque, mi ricordai, in frigorifero c'era ancora una scatoletta di tonno. Ma sì. Una bella mangiata di tonno e poi “quella è la porta”.
Finito il pasto, la gatta ha preso la via della porta?
Ovviamente non è andata così.
Ancora oggi, mi commuovo se penso a quei tredici anni passati con Venerina.
Allora non facevo parte del movimento antivivisezionista e, come praticamente tutti i miei colleghi, ritenevo del tutto ovvio sacrificare animali alla ricerca medica. E se qualche ricercatore fosse stato attraversato da dubbi o, addirittura, scrupoli poteva sempre rifugiarsi nella Verità decretata dalla Scienza Ufficiale che bollava, allora, come eresia, qualsiasi tentativo di eliminare o ridurre il sacrificio degli animali nella ricerca scientifica.
Ancora oggi, mi commuovo se penso a quei tredici anni passati con Venerina.
Allora non facevo parte del movimento antivivisezionista e, come praticamente tutti i miei colleghi, ritenevo del tutto ovvio sacrificare animali alla ricerca medica. E se qualche ricercatore fosse stato attraversato da dubbi o, addirittura, scrupoli poteva sempre rifugiarsi nella Verità decretata dalla Scienza Ufficiale che bollava, allora, come eresia, qualsiasi tentativo di eliminare o ridurre il sacrificio degli animali nella ricerca scientifica.
Com’è avvenuta questa sua evoluzione?
È difficile spiegare cosa si verificò in me, ma credo possa capirlo chiunque abbia avuto un gatto in casa. Quel suo sguardo, quei suoi occhi che continuavano a fissarmi… cominciavano a comunicarmi qualcosa che mai avrei potuto conoscere dai libri o dalle mie ricerche. Più che conoscenza era consapevolezza: qualcosa di immensamente più profondo. Era la sensazione, come trovai scritto in un libro di Borges, che, al di là della specie che ci divideva, al di là del tempo che ci avrebbe divisi, c'era in noi due una indissolubile unità, una comunione, creata dall'essere entrambi un prodotto dell'universo: le stelle, le ceneri di queste, gli elementi, le molecole, la Vita.
Questa nuova sensibilità come si è tradotta a livello professionale?
Un giorno in laboratorio mi ritrovai per due ore, sotto gli occhi sbalorditi dei miei colleghi, a cercare di rianimare un furetto. Quella cavia di laboratorio stava morendo per un attacco cardiaco provocato dall’insolita reazione provocata da una sostanza che gli era stata iniettata. Una “interessante” reazione che, forse, secondo i dettami dell'allora imperante Medicina, avremmo dovuto limitarci a trascrivere su qualche protocollo o, ancora meglio, su un articolo da pubblicare su qualche rivista scientifica per garantirci così un altro passettino verso una luminosa carriera accademica.
Di certo non voleva abbandonare la ricerca scientifica…
No, ma volevo trovare un modo per renderla meno traumatizzante per gli animali. Allora non c'era Internet e, pertanto, cercavo nelle librerie e nelle biblioteche un qualche testo che rispondesse alla domanda. Quando mi imbattei in un testo che parlava del “Caso Talidomide” …
Un caso tristemente famoso, di cui si parla ancora oggi…
Nel dicembre 1961 tutti i farmaci composti da Talidomide furono ritirati dal mercato. Fino ad allora questo sedativo anti-nausea per donne gravide era stato un farmaco leader di mercato. Ma la verità era venuta fuori: il Talidomide poteva provocare nei feti gravissime malformazioni quali amelia (assenza degli arti) o vari gradi di focomelia (riduzione delle ossa lunghe degli arti), generalmente a carico degli arti superiori. La tragedia del Talidomide, che aveva marchiato per sempre, nei soli paesi occidentali, almeno 10.000 bambini, si trasformò, anche per i risarcimenti stratosferici in gioco, in un colossale caso giudiziario. Il processo, cominciato nel dicembre 1967, verteva sul rispetto delle procedure previste per la sperimentazione finalizzate alla produzione di farmaci. Tutte rispettate, ribadì la Chemie Grünenthal, la casa produttrice, e la sua consociata Distillers Company, trincerandosi dietro le innumerevoli sperimentazioni animali che avevano effettuato prima di immettere in commercio il Talidomide, attestanti la mancanza di seri effetti collaterali, anche quando la molecola era stata testata su cavie gravide.
E’ da questo caso che iniziarono ad apparire nel mondo accademico i primi timidi dubbi sulla validità della sperimentazione animale?
Credo di sì. E fu proprio in quei giorni che lessi una dichiarazione di uno scienziato che, qualche anno più tardi, avrebbe cambiato la mia vita, Albert Sabin, l'inventore del vaccino contro la poliomielite. Lui disse: “L'invenzione del vaccino contro la poliomielite è stata a lungo ritardata per via della concezione errata della natura della malattia nell'uomo, che era basata su modelli sperimentali fuorvianti della malattia stessa nelle scimmie. I primi vaccini contro la rabbia e la polio funzionarono bene sugli animali ma storpiarono o uccisero i pazienti a cui furono somministrati”.
Sabin era dunque contro la sperimentazione animale?
Sì, e ha anche aggiunto: “ Il motivo principale è che si tratta di cattiva scienza che produce parecchi dati fuorvianti e disorientanti, pericolosi per la salute umana. E' anche uno spreco del denaro dei contribuenti prendere animali sani e causare loro - artificialmente o con la violenza - malattie che normalmente non svilupperebbero o che svilupperebbero in forma diversa, quando disponiamo già di persone malate che possono essere studiate in fase di cura".
Ce n'era abbastanza per dare un nuovo corso al mio lavoro di ricercatore. Anche perché cominciavo a rendermi conto che buona parte delle cosiddette pubblicazioni scientifiche, basate sul sacrificio degli animali, erano assolutamente inutili riproponendo, per lo più, esperimenti fatti e rifatti già centinaia di volte. Esperimenti finalizzati esclusivamente a finire su qualche pubblicazione, per rimpinguare un qualche curriculum.
Come la presero i suoi colleghi?
Cercavo di condividere le mie perplessità con qualche collega ma finivo per fare il vuoto intorno a me; parlare di diritti degli animali in un laboratorio di ricerca sembrava, allora, più che un’eresia, un’assurdità.
Oggi l'attenzione per i diritti degli animali si sta conquistando uno spazio sempre più grande tra i mass media e può sembrare “normale”, quasi un vezzo, che ci si batta contro la sperimentazione animale; ma posso assicurare che allora, negli anni “80, per un ricercatore impegnarsi con temerarietà in questo campo significava bisticciare con i colleghi, perdere finanziamenti, dire addio a progetti di ricerca.
L’immancabile domanda che si rivolge a chi è anti sperimentazione animale è “ ... meglio che muoia una scimmia o un bambino?”. Lei cosa risponde?
Non mi sono mai piaciute le risposte nette; anzi, per fare mie le parole di Carl Gustav Jung, “Ciò che è senza ambiguità e senza contraddizioni coglie soltanto un lato delle cose”. Per questo non mi sono mai piaciuti gli “schieramenti”: inconciliabili fronti che da posizioni opposte trasformano il dibattito in una rissa o una battaglia. Ancora di più quando si parla di utilizzo degli animali nei laboratori di ricerca: un argomento che, di certo, non si può affrontare con gli anatemi.
La sperimentazione animale come fondamento della ricerca medica umana si è diffusa, sostanzialmente, per “merito” di un medico francese Claude Bernard (1813-78) il quale sostenne “Uno degli ostacoli maggiori che l'uomo incontra lungo il cammino della conoscenza è rappresentato dalla tendenza delle acquisizioni umane a trasformarsi in sistemi.”Un'affermazione certamente roboante e che suscita innumerevoli letture, ma che nel contesto nel quale fu pronunciata (il tentativo di Bernard di difendersi dalle accuse di inutili crudeltà sugli animali) affida alla Scienza (con la “S” maiuscola), il compito di sbaragliare consolidate strutture culturali: una concezione questa alla base del positivismo scientifico e che ha finito per trasformare oggi lo scienziato in una sorta di sacerdote laico, arrogante, sprezzante, che lancia anatemi contro il “moderno oscurantismo” rappresentato, quest'ultimo, dalle organizzazioni animaliste “colpevoli” di mobilitarsi contro la sperimentazione animale e la creazione di animali transgenici da avviare ai laboratori.
E’ stato anche lei vittima di questo ostracismo?
Sì e della boria di tanti miei colleghi, qualche anno fa quando, a fianco di uno sparuto drappello di “animalisti”, mi impegnai contro una sciagurata iniziativa della Comunità Europea: il Progetto REACH. La finalità di REACH (Registration, Evaluation and Authorisation) era certamente condivisibile: testare l’eventuale tossicità di sostanze chimiche immesse sul mercato prima del 1981, non esistendo, prima di quella data, obbligo legale di testare i prodotti chimici per classificarli ed etichettarli. Bisognava valutare l’eventuale tossicità di queste sostanze, basandosi non già su indagini epidemiologiche o su altri metodi d’indagine, sui quali mi soffermerò in seguito, ma semplicemente (e crudelmente) utilizzando animali da laboratorio. Quanti animali? Un rapporto del Dipartimento per l'Ambiente del Regno Unito calcolava che per testare gli effetti dei 30.000 prodotti chimici contemplati dal progetto REACH sarebbero serviti da 13 a 50 milioni di animali. E il tutto con la benedizione della Scienza.
Indignato per l’assurdità del progetto cercai di coinvolgere, primi tra tutti, i miei colleghi. Devo dire la verità: mi sarei aspettato di peggio. Certo, il gruppo di ricercatori che riuscii ad aggregare contro il REACH non poteva certo dirsi numeroso ma, per fortuna i dinieghi dei miei colleghi, motivati con trite argomentazioni quali “tanto noi non abbiamo nessuna remora a mangiarci una bistecca” o i “supremi interessi della Scienza” furono molto meno di quanto mi sarei aspettato. Va detto, comunque, che la principale responsabilità del persistere di una metodologia così fallace come la sperimentazione animale, non è da addebitare alla sola inerzia culturale, ma alla disorganizzazione che in Italia regna sovrana nel mondo della Ricerca.
Mi spieghi meglio…
Il nostro Paese, che pure non brilla nel panorama internazionale per la ricerca medica, è, tra i paesi occidentali, il fanalino di coda nei diritti degli animali “da laboratorio”, e ciò nonostante una serie di “innovative” normative (Dec.Leg. 116/92, Legge 413/1993 Circolare Ministero della Salute 14 maggio 2001...) che dovrebbero rigidamente regolamentare la sperimentazione animale e che garantiscono, addirittura, l’obiezione di coscienza a medici, ricercatori, personale sanitario, studenti universitari... Il problema, tanto per cambiare, è che non esiste in Italia un efficace controllo che eviti agli animali inutili sofferenze e le autorizzazioni alla sperimentazione animale, di fatto, vengono concesse automaticamente. Non resta quindi, oltre che attrezzarsi per far rispettare la legge (e, speriamo, imminenti nuove normative ora in discussione al Parlamento che prevedono il divieto di uso di animali nella didattica, nei test per la produzione di cosmetici e di anticorpi monoclonali tramite l'induzione dell'ascite...) sensibilizzare il mondo scientifico al problema.
Come?
Intanto evitando la demonizzazione dell’”avversario” che ha scandito non poche conferenze alle quali sono intervenuto. In una ricordo, davanti a foto che illustravano le sevizie alle quali era stato sottoposto uno scimpanzé da laboratorio, un mio collega non aveva trovato niente di meglio da fare che sovrapporre le foto di un bambino affetto da non so più quale malattia neurologica che, a dire del mio collega, sarebbe stata ben presto debellata grazie proprio agli esperimenti condotti sui primati da laboratorio.
Il battibecco che era scaturito si era ben presto esteso agli animali da pelliccia (argomento che il mio collega credeva di rintuzzare indicando i bottoni d’osso e il cuoio delle scarpe dei suoi interlocutori), agli animali da circo (...“e il bue? Chi altri per millenni, sotto la sferza, ha trascinato l’aratro?”), all’effettiva utilità delle ricerche marcate Telethon... prima di trasformarsi in una specie di rissa.
La cosa curiosa è che oggi questo mio collega dirige un centro di ricerca che ha fatto dell’utilizzo di metodologie alternative alla sperimentazione animale una bandiera. Miracolo? Onestà intellettuale? Forse sì. O forse questione di marketing. Oggi occuparsi della salvaguardia degli animali, del loro benessere, ha un’ottima ricaduta in termini di immagine e, quindi, di business; e i soldi sono oggi la questione fondamentale per chi fa ricerca. Forse è anche per questo che le metodologie alternative alla sperimentazione animale stanno diventando popolari, con buona pace di un “autorevole” esponente del mondo farmacologico italiano, che continua a considerarle un “anatema” e un “moderno oscurantismo”.
Quando iniziano a essere praticati i metodi alternativi?
Il primo organico studio sui metodi alternativi alla sperimentazione animale risale al 1959, grazie a due ricercatori, Russel e Burch, e al loro metodo, comunemente definito delle 3R: Refinement (Raffinamento), Reduction (Riduzione) Replacement (Rimpiazzamento). Con Raffinamento si intende il miglioramento delle tecniche sperimentali, compiute pur sempre su animali, in modo da ridurre la loro sofferenza; in alcuni casi, si cerca, ad esempio, di usare animali filogeneticamente meno evoluti; con Riduzione si intende la riduzione del numero di animali usati, o l'aumento di informazioni ottenute con lo stesso numero di animali (è il caso della famigerata “dose letale” che oggi viene calcolata impiegando un terzo delle cavie di laboratorio che usavano qualche anno fa); con Rimpiazzamento si intende la sostituzione dell'animale con l'utilizzo di metodi alternativi. Oggi, in Europa, questi metodi alternativi sono validati dall’ECVAM (European Centre for Validation of Alternative Methods-Centro Europeo per la Validazione di Metodi Alternativi) di Ispra, sul Lago Maggiore. Tra i test che il Centro è riuscito a sostituire quelli, crudelissimi, sulla corrosione e sulla fototossicità cutanea delle sostanze (indispensabili per l'approvazione di cosmetici) che determinavano, ogni anno, l’accecamento di decine di migliaia di conigli e altre cavie.
Tuttavia tali metodi non sono recepiti da buona parte della comunità, o sbaglio?
La diffusione di sistemi di sperimentazione alternativi a quelli condotti su animali è ostacolata in molti casi dalla pigrizia mentale, anzi - per meglio dire - dal cinismo e dall’indifferenza per le sofferenze che devono patire milioni di bestiole. Si esamini, ad esempio il caso della sperimentazione su tessuti; un settore della ricerca che finora ha portato ad una ecatombe (secondo l'associazione animalista inglese Animal Aid, in Gran Bretagna vengono uccisi ogni anno 400.000 animali solo per usare i loro tessuti nella ricerca in vitro). Una strage finora giustificata dalla scarsa disponibilità di tessuti umani da impiegare nelle ricerche. Negli ultimi tempi, per fortuna, sulla spinta di mobilitazioni condotte da associazioni ambientaliste e da, ancora pochi, coraggiosi ricercatori, si sta sempre diffondendo la ricerca su tessuti umani provenienti da cadaveri, in cui i tessuti e gli organi vengono prelevati subito dopo la morte del donatore, e da biopsie e operazioni chirurgiche in cui si chiede al paziente il consenso a usare il materiale di “scarto” (sangue, placenta, cordone ombelicale, pelle, viscere, ossa, cartilagini...) ottenuto dall'intervento per la ricerca.
Ovviamente l'attendibilità di ricerche effettuate su tessuto umano è molto più attendibile di quella compiuta utilizzando tessuti animali ma nella maggior parte dei paesi europei, mentre il sistema per la donazione di organi per i trapianti è ben organizzato, non c'è alcuna linea guida sulla distribuzione del materiale non trapiantabile a fini di ricerca (tranne che per la stessa ricerca sui trapianti). In pratica, la distribuzione di organi e tessuti per la ricerca avviene solo all'interno di uno stesso ospedale, o per conoscenza diretta tra singoli ricercatori e medici, ma non esiste una vera e propria organizzazione, tranne in Gran Bretagna, dove esiste una banca di tessuti umani per la ricerca.
C’è inoltre l'infondata preoccupazione che questo tipo di donazione possa essere considerato "in concorrenza" con le donazioni per i trapianti, e quindi sia malvista sia dal pubblico che dalle banche di tessuti esistenti (che si occupano solo di trapianti). In realtà, questo non avviene, perché molti organi e tessuti non sono comunque utilizzabili per i trapianti, mentre sono molto utili per la ricerca. Per esempio, per un trapianto di cuore l'organo viene asportato a cuore battente, e la morte è solo cerebrale. L'organo di un paziente già morto non serve per i trapianti, ma per la ricerca sì. Inoltre, esistono molti organi e tessuti che non vengono utilizzati per i trapianti, mentre possono esserlo per la ricerca. Questo per quanto riguarda le donazioni post mortem. Per le donazioni di materiale di scarto delle operazioni, il problema non si pone, perché questo non risulta di alcuna utilità per i trapianti. La donazione di tessuti per la ricerca, quindi, non si pone in concorrenza con quella per i trapianti e le eventuali resistenze psicologiche dei pazienti e della popolazione potrebbero essere superate con una campagna di sensibilizzazione e di educazione. Cosa che, per quel che è dato sapere, in Italia non si fa.
Le tecniche di indagine alternative sono diverse, quale ritiene particolarmente utile e interessante?
L’esposizione delle numerose tecniche d’indagine, che oggi permettono di evitare sperimentazioni sugli animali, potrebbe continuare a lungo ma vorrei soffermarmi su una, sviluppatasi soprattutto a seguito delle mobilitazioni contro la sperimentazione animale, che mi sembra particolarmente intrigante: la biologia dei sistemi (o Systems Biology), una disciplina che nasce dall'uso congiunto della modellistica matematica e delle più avanzate tecnologie bio-mediche, le quali sono in grado di misurare centinaia o migliaia di variabili sperimentali e/o cliniche riferite ad uno stesso osservabile quali macromolecola, linea cellulare, paziente...
Ma torniamo alla sperimentazione animale. Perché, nonostante la fallacia che lei gli attribuisce, continua ad avere un posto di riguardo nei laboratori?
Un piccolo esempio. Non molto tempo fa, ad un convegno sulle infezioni in ambito marino, mi capitò di ascoltare un biologo di una ASL che relazionava sui test di salubrità sui molluschi; effettuati dalla ASL iniettando biotossine algali nell’addome di topolini (detti “Mba Mouse bioassay”). Se su tre topolini sottoposti a test, almeno uno moriva, i molluschi venivano considerati non commestibili; altrimenti erano OK. In ogni caso, terminato l’esperimento, tutti e tre i topolini venivano uccisi. L’affidabilità di questo metodo è a dir poco discutibile; già nel 1980 la Germania lo ha abolito e da anni, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, da anni, suggerisce una più affidabile tecnica di indagine, (tra l’altro più economica considerando l’elevato costo raggiunto oggi dagli animali da laboratorio, le spese per lo stabulario, lo smaltimento) basata su cromatografia liquida ad alto rendimento e spettrometria di massa. Chiacchierando con il biologo della ASL durante la pausa caffè mi venne, quindi, spontaneo domandargli perché mai la sua ASL insistesse con i test con le cavie. Mi rispose con un mezzo sorrisetto: “Si è sempre fatto così”.
Di solito, sono un tipo tranquillo, addirittura bonario; ma posso garantirvi che quella volta se non avessi fatto immani sforzi per trattenermi, avrei riempito di improperi il tizio della ASL che, tra l’altro, dovette accorgersi del mio stato d’animo affrettandosi, dopo una qualche frase di circostanza, con ancora in mano la tazzina di caffè, a dileguarsi tra la folla del convegno.
Perché quella mia reazione?
Forse perché, sperimentazione animale a parte, avevo visto nel tizio, più che pigrizia mentale, quel misto d’ignoranza e indifferenza per le sorti degli altri che resta l’emblema di una certa baronia scientifica e accademica; una baronia, sempre bramosa di dominio e privilegi, che ho sempre cercato di sconfiggere.
Prof. Giulio Tarro
Già docente Virologia Oncologica Università di Napoli
Primario di Virologia presso il Presidio Ospedaliero D. Cotugno di Napoli
Già docente Virologia Oncologica Università di Napoli
Primario di Virologia presso il Presidio Ospedaliero D. Cotugno di Napoli
Non perdete la prossima intervista con il Prof. Gilberto Corbellini a favore della sperimentazione animale. Da mercoledì 2 ottobre sul blog!
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