domenica 31 agosto 2014

BURQUA E BIKINI

Burqa e bikini, la mia vita da donna musulmana in Occidente

Pubblicato: Aggiornato: 
NADIA MANZOOR
Se c'è una cosa che so fare bene, è mentire. Crescendo nel Regno Unito in una famiglia pakistana musulmana e tradizionalista, ho fatto un sacco di pratica.
Ho detto la mia prima bugia a sette anni. L'ho detta a Mrs. Longmeure, la madre bianca che avrei voluto fosse la mia. Odorava di Chanel e mi intimidiva con le sue lunghe unghie smaltate di rosso. "Per Natale, Mamma e Papà hanno portato me e mio fratello Kevin a Los Angeles, ed è stato bellissimo". In realtà, mio fratello si chiama Khurram e avevamo passato le nostre vacanze nel caldo putrido di Karachi assieme a 70 cugini, sui tetti, dondolando aquiloni e bevendo Lassi in lattina.
Mentivo agli Inglesi, perché volevo essere come loro. Ma non mi sono fermata lì. Ho anche mentito alla mia famiglia.
"Abbu (Urdu per "padre"), mi fermo dopo scuola per un dibattito - è sull'oggettivazione delle donne nei media. Io sto dalla parte della semplicità". Non c'era nessun dibattito. È stato il mio primo appuntamento segreto. Con un ragazzo. Sapevo che se avessi detto a mio padre la verità, non ci sarebbe stato alcun appuntamento, né liceo, né vita. Probabilmente mi avrebbero sedata con un'aspirina, buttata in un sacco nero della spazzatura e scortata all'aeroporto, imbavagliata e delirante. "Un biglietto di sola andata per il Pakistan per favore! - e mi sarei risvegliata nel bel mezzo di un rapporto con un qualche tizio pakistano chiamato Mr. Khan, a quel punto convenientemente mio marito".
Fortunatamente, non è capitato a me. Ma in quanto ragazza musulmana, non mi era permesso di parlare ai ragazzi, figuriamoci uscirci per un appuntamento. Non potevo mostrare i contorni del mio corpo, né della mia mente. Volevo diventare astronauta, ma mi è stato detto che le ragazze non vanno nello spazio. Restano bene impacchettate, come dei regali di Natale, preparando dei biryani delicatamente speziati per i loro mariti. A me piaceva solo mangiarli, i biryani, ma più ne mangiavo, più i miei glutei si espandevano, e più mi veniva detto che nessuno avrebbe voluto sposare una "Grassa grassa grassona". Dopo tutto, il matrimonio è il motivo per il quale le donne pakistane esistono.
Quando la cultura che ti ospita incoraggia l'individualità e l'indipendenza, mentre la tua cultura madre rinforza il conformismo e la tradizione, si rimane intrappolati in un crepaccio, tra la libertà e la limitazione. Era un territorio instabile che spaziava tra due visioni del mondo diverse. Le bugie mi tenevano al sicuro.
Ho ricevuto la mia educazione accademica in una scuola inglese, ma le mie radici culturali venivano da casa. Quando Ammi (Urdu per "mamma") mi disse che a 12 anni avrei cominciato a sanguinare, non mi ha detto per quale motivo; solo che si trattava di una cosa in più che le donne dovevano sopportare, così da poter fare il loro uomo molto, molto felice. Ovviamente la mia educazione inglese mi ha insegnato tutt'altra cosa. Miss Hamilton ha messo un preservativo su una grossa banana davanti alla classe intera, spiegando come funziona il regno animale. Non avrei mai potuto dire ai miei genitori cosa era successo in classe. Mi avrebbero colpita con quella banana e costretta a mangiarla mentre chiedevo perdono per i miei peccati.
I miei genitori pakistani sono venuti in Occidente per le lauree prestigiose, per le istituzioni democratiche e per i dentisti dalle scarpe lucide. Quel che non si erano immaginati era che le droghe, i balli e le ragazze ubriache avrebbero insegnato alla loro figlia la differenza tra un lavoro di mano e uno di bocca. Volevo la mia famiglia, ma volevo anche la mia libertà.
Quando le mie amiche bianche tornavano dalla discoteca raccontando le loro grandi maratone di amoreggiamenti o dimenticando il consiglio di Mrs. Hamilton su cosa mettere su una banana, io ero preoccupata. Non era il tipo di libertà che mi ero figurata.
Avevo bisogno di prendere distanza da tutto quello. Così, ho fatto domanda per un'università il più distante possibile da casa. E lì ho incontrato Brendan, un barista irlandese cattolico, il mio primo amore. Non c'era più bisogno che mentissi su chi ero veramente. Il suo amore era incondizionato.
Per la mia famiglia, invece, l'amore aveva delle condizioni. Quando Abbu scoprì una foto di me con addosso un bikini tra le braccia del mio amore irlandese, il cuore gli è saltato fuori dal petto ed è finito sul pavimento della cucina dimenandosi come un machli (Urdu per "pesce"). "Mia figlia fa le copertine di Playboy!" ha detto, mentre le lacrime gli colavano sul viso. "Nadia, il matrimonio non riguarda due persone che si uniscono. Ma due famiglie che si uniscono". Brendan è stato strappato dalla fotografia, così come dalla mia vita, e Abbu ha iniziato a fare preparativi per il mio matrimonio.
"Nadia, ti ho comprato un orologio d'oro", mi ha detto il contabile di Abbu, mentre mi chiedeva di accostare nel bel mezzo di una lezione di guida. "L'orologio ticchetta, così come la tua radiosità di donna. Ora, quale dei miei figli vuoi sposare? Ne ho tre". Ed ha continuato descrivendo le qualità dei suoi meravigliosi ragazzi. Ma non avrei potuto passare la mia vita con nessuno di loro. Non avrei potuto passare la mia vita come moglie di qualcuno che avesse un modello precostituito di come avrei dovuto essere: una donna delicata ed obbediente, che cucina chapati perfettamente tondi. Sapevo che non sarei mai stata così, ma non sapevo chi volevo essere veramente.
È solo quando ho cominciato a scrivere della mia vita che ho scoperto le più profonde contraddizioni che convivevano in me. Intrappolata nella rete delle mie stesse bugie, ho cominciato a disfarmi sulle pagine. Mentivo perché non potevo fidarmi - della mia casa, del mio ambiente, ma soprattutto di me stessa. Ero esausta e sola, e passavo la maggior parte del mio tempo fingendo di essere libera e fingendo di conservare l'onore della mia famiglia. Ma per me non rimanevano né libertà né onore.
Avevo passato la maggior parte della mia vita a fingere. A volte dietro un burqa, altre in un bikini, provando allo stesso tempo a trovare e nascondere me stessa, ma fondamentalmente sempre di corsa. È solo quando sono salita sul palco per raccontare la mia storia, che la mia finzione è diventata autentica. Condividendo la verità del mio passato, mi sono liberata della necessità di mentire.

Nessun commento:

Posta un commento