mercoledì 20 novembre 2013

LIBERAZIONE ANIMALE E CRITICA DELLA SOCIETÀ. INTERVISTA A JOHN SANBONMATSU

LIBERAZIONE ANIMALE E CRITICA DELLA SOCIETÀ. INTERVISTA A JOHN SANBONMATSU

a cura di M. Maurizi
Traduzione di Irene Della Pina
JohnSanbonmatsu
Lei è il curatore di “Critical Theory and Animal Liberation”, opera che rappresenta un’interessante novità nel campo degli studi sui diritti animali. Può spiegarci quali sono i limiti del pensiero di Singer e Regan?
Per quanto io ammiri e rispetti gli importanti contributi di Singer e Regan, sia come filosofi che come difensori degli animali, ritengo che la filosofia analitica morale abbia dei limiti se usata come porta di accesso primaria al discorso generale sulle nostre relazioni con gli altri esseri. Il problema principale di buona parte dell’etica è la tendenza a ridurre lo specismo essenzialmente a una questione di “pensiero morale errato”. Questo paradigma parte da una concezione distorta sia della psicologia umana, dal momento che individua le basi della coscienza nella razionalità, piuttosto che nei sentimenti e nei desideri – su tutti il desiderio di potere in senso nietzschiano – sia della società stessa. Trattandosi infatti di un approccio essenzialmente liberale, le questioni di potere, autorità, stato, capitalismo etc. restano periferiche rispetto alla questione dell’etica, destinata a restare isolata rispetto al disordine terreno per meglio chiarire le sue questioni concettuali. Da tutto ciò nasce l’idea che sia possibile lavorare sui cambiamenti sociali educando le persone e facendo appello alla “ragione”. Ma dove si trova questa ragione a cui dovremmo fare appello? Non sto insinuando che la ragione non sia importante, o che non dovrebbe costituire un ideale normativo – qualcosa a cui aspirare come individui e come società. Ci sono però vari motivi per cui lo specismo è sopravvissuto per più di diecimila anni, e non tutti hanno a che fare con la “disinformazione” delle persone, o col loro essere in qualche modo all’oscuro sui fatti. Una delle mie ultime ricerche aveva infatti come oggetto il ruolo della “malafede” nella psicologia dello specismo. Nell’accezione del filosofo francese Jean-Paul Sartre il termine “malafede” (mauvaise foi) è essenzialmente un tipo di auto illusione con cui nascondiamo la verità da noi stessi, così da non assumerci la responsabilità delle nostre scelte e azioni in quanto esseri auto-determinanti. Lo specismo si avvale della malafede in svariati modi, non solo a livello individuale ma anche a livello della società stessa. Come è risaputo tra tutti gli attivisti per i diritti animali, in pochi vanno alla ricerca di filmati su, ad esempio, allevamenti industriali o vivisezione. Molti dicono di “sapere” già da dove viene la loro carne, quando in realtà non lo sanno veramente e non lo vogliono sapere. Quindi, al posto di approfondire l’argomento, per non dire leggere della filosofia morale, preferiscono razionalizzare l’industria animale affermando che il consumo di carne è naturale, che i vegetariani uccidono le piante e così via.
Tutto ciò sta a dimostrare che, pur essendoci sicuramente un posto per il tipo di filosofia morale sviluppata da Singer e Regan nel corso delle loro carriere, l’affidamento esclusivo sul ragionamento morale non può portarci molto lontano. Lo specismo non è esclusivamente pubblica ignoranza, o assenza di principi morali corretti, è invece un sistema materiale, un’ideologia totalitaria e una struttura esistenziale: in altre parole, un modo di produzione. E’ inoltre un sistema patriarcale. Studiose femministe quali Carol Adams e Josephine Donovan hanno attirato l’attenzione su alcuni dei problemi causati dalla natura maschilista della tradizione analitica. Singer, Regan ed altri tendono a mettere da parte sentimenti ed empatia, trattando la “questione animale” come un problema di puro e semplice ragionamento analitico. Questa scarsa considerazione per la compassione e il coinvolgimento può solo contribuire ad un sistema patriarcale che trae la sua forza dall’isolamento e dalla denigrazione dei valori tradizionalmente “poco mascolini”. Adams ha inoltre illustrato come il dominio degli umani sugli altri animali sia strettamente connesso con il dominio degli uomini sulle donne. La critica analitica tende invece a trascurare questi elementi chiave, le dimensioni sociali e affettive del problema.
Vorrei aggiungere qualcosa di più specifico sull’opera di Singer. In un certo senso credo che i suoi legami con la tradizione analitica lo abbiano reso miope verso la natura esistenziale della coscienza e dell’essere-nel-mondo dei non-umani. Quest’estate, ascoltando l’intervento di Singer nella conferenza “Minding Animals” di Utrecht, nei Paesi Bassi, fui scioccato dalla sua ipotesi che gli esseri non-umani non abbiano una forte preferenza per lavita. Ora, nessun esponente del movimento che abbia seguito il pensiero di Singer negli anni sarà del tutto sorpreso. Da utilitarista preferenziale quale è, Singer ha sempre sostenuto che non è nel nostro interesse causare sofferenza o dolore agli esseri non-umani, a meno che tale sofferenza non conduca a un bene superiore. Ed è sempre stato chiaro nel dimostrare quanto poco ci sia di giustificabile nella gamma di usi che in quanto umani attribuiamo ai non-umani, siano essi legati al cibo, alla scienza o al capitale. Non vi è nulla, in poche parole, che possa dimostrare la “necessità” di causare sofferenza ad altri esseri. Ciononostante, il problema dell’uccisione ha sempre rappresentato il tallone di Achille della posizione di Singer, la cui devozione all’utilitarismo gli rende praticamente impossibile trovare qualcosa di erroneo nell’uccisione di un animale, anche umano, se questa è condotta in modo indolore. (Per lo stesso motivo è stato duramente criticato -e a ragione, a mio avviso- dai movimenti per i diritti dei disabili, dopo essersi espresso a favore dell’eutanasia per i neonati con gravi disabilità destinati a una vita dolorosa). Non solo: Singer, questo arcicritico dello specismo, ha affermato che le vite degli esseri “superiori” come scimmie e umani hanno un valore maggiore rispetto agli altri animali, vista la loro abilità di anticipare e programmare il futuro.
Personalmente, non ho mai letto nulla che offra a questa posizione un sostegno adeguato. Anche se Singer potesse dimostrare che solo un numero ridotto di animali hanno coscienza di se stessi come identità continua nel tempo e sono proiettati nel futuro – cosa che finora non ha fatto – non è subito evidente come e perché questo criterio sia importante. Posso dirvi che mio figlio di dieci anni finora ha vissuto perlopiù al momento, giorno per giorno, e in generale non è mai stato capace di proiettarsi nel futuro oltre poche ore. Forse questo rende la sua vita meno importante di quella di un amministratore delegato che ha già pianificato il suo pensionamento e composto un portafoglio di investimenti per assicurare il futuro della sua discendenza? E perché? Non dovremmo piuttosto dire che le nostre vite da bambini, quando davvero vivevamo ogni attimo, quando il mondo era una vivida distesa di stimoli, possibilità e misteri, erano più ricche e piene delle nostre vite da adulti tormentati, obbedienti a ciò che Freud chiamava il principio di realtà? Quando penso alla vita di Cynthia, un gatto che vive con dei miei amici, non posso che invidiarla. Ogni giorno per lei è un’avventura selvaggia, piena di misteri, delizie dei sensi, intrighi, sfide, sensazioni intense, amicizie e, senza dubbio, amore.
Sentendo Singer parlare con tanta calma e distacco della dolorosa uccisione delle pecore tramite un colpo di pistola alla testa – non che lo stesse auspicando, stava solo dicendo che gli animali possono essere uccisi senza dolore – ho avuto l’impressione di ascoltare qualcuno con un disturbo dissociativo. Ed era così, in un certo senso: la filosofia analitica morale si fonda sulla prospettiva cartesiana che pone il filosofo al di là della cortina di ferro del suo stesso intelletto, da cui guarda il mondo come dall’estremo sbagliato di un telescopio, tenendosi a distanza. Da un lato, l’utilitarismo e il kantismo, in quanto paradigmi e modi di vedere, sono potenti strumenti per analizzare nel dettaglio questioni delicate e concetti relativi alle nostre vite morali. Tuttavia, come ha dimostrato Thomas Kuhn, focalizzare in tal modo il nostro sguardo pone degli “schermi”, dei filtri tra noi e il regno fenomenico. Vediamo solo ciò che il paradigma ci permette di vedere. Nel caso di Singer, penso che sia stata proprio la forza del suo sistema utilitario a portarlo ad abbracciare una visione ugualmente miope della coscienza, dell’attivismo e della soggettività non-umana. In quel discorso, rispetto alle altre occasioni in cui ho potuto ascoltarlo, Singer si è spinto più in là del solito nell’affermare che gli altri animali non hanno una forte preferenza per la vita. Questa, pensai, era un’affermazione sconvolgente, per varie ragioni. Prima di tutto, svalutando le vite degli animali Singer ha inavvertitamente aperto la strada ad ogni istituzione abusiva, ad ogni pratica a cui gli umani già sottopongono i non-umani. C’è il detto, attribuito a Dostoevskij, che se Dio è morto tutto è permesso… Bene, quando si dice che alla totalità degli animali non importa la distinzione tra libertà e prigionia, tra vita e morte, allora davvero tutto è permesso. E’ molto facile poi creare un percorso razionale verso le pratiche di sterminio, poco importa se gli animali sono (o possono essere) uccisi in modo “indolore” – questo nella mente degli uccisori sarà sempre secondario.
Non è mia intenzione ritrarre Singer come uno specista: la sua convinzione che gli altri animali sperimentino i loro mondi e siano capaci di provare dolore e sofferenza è sempre stata inamovibile. E tuttavia si ritrova, direi a causa delle sue predilezioni filosofiche, ad abbracciare una concezione riduzionistica ed alienata della coscienza non-umana, vedendo gli altri esseri come veicoli essenzialmente vuoti che “contengono” esperienze quali piacere e dolore, e non come persone la cui esistenza nel mondo è costituita dalle loro esperienze. Nel mondo di Singer, gli animali hanno sì interessi, ma di natura quasi sempre comportamentale: interesse per le comodità, interesse per il buon cibo, interesse nel non provare terrore, e così via. Non l’ho mai sentito riconoscere che le altre, le molte altre specie, siano interessate ad amare ed essere amate, sebbene non ci sia motivo di escludere l’amore dalla gamma di emozioni che molte specie sono capaci di sperimentare. Ma più di ogni altra cosa, direi, l’interesse che Singer non è disposto a concedergli è l’interesse a non essere uccisi.
Ad Utrecht, Singer sembrava implicare che gli esseri non-umani siano avversi al dolore e non alla morte. Ora, chiunque abbia mai tenuto tra le braccia un animale morente, o guardato animali in pericolo di morte violenta lottare per la loro vita, non avrà problemi a distinguere tra un comportamento di rifiuto del dolore e un istinto primordiale comune a tutti gli esseri senzienti di evitare la propria morte. Certo, anche questo “istinto” è legato al contesto e funzionale ai mezzi e alle situazioni degli organismi (ciò spiega perché alcuni animali muoiono di dispiacere, o si indeboliscono talmente dopo una perdita che soccombono alla malattia o ai predatori in poco tempo, avendo letteralmente perso la volontà di vivere). Questo non esclude il fatto che viveresia una preferenza comune a tutti gli esseri senzienti, preferenza che in ultima analisi sovrasta tutte le altre. Migliaia, se non milioni, di osservazioni di animali effettuate nel corso degli anni ci dimostrano che questi possono scegliere volontariamente un dolore intenso, o anche la tortura, se credono che l’alternativa sia la morte. Sappiamo di animali con una gamba chiusa in una trappola che affrontando un’intensa agonia si sono staccati gli arti a morsi per salvare la propria vita. Ed è strano che la visione di Singer si discosti in tal modo non solo da Freud e Nietzsche ma anche da tutto ciò che abbiamo imparato dalla biologia evoluzionistica e, in senso lato, dal Darwinismo. Se fossimo obbligati ad identificare una singola “direttiva primaria” di tutte le forme di vita, inclusi i vegetali, sarebbe semplicemente il vivere. Poco importa che l’organismo in questione sia un lupo grigio, una tartaruga di Ridley, un essere umano o un topo di campagna: l’essere vivente accetterà ogni privazione e sofferenza, anche estrema, al fine di sopravvivere. L’esperienza di campi di concentramento nazisti o situazioni analoghe ha dimostrato oltre ogni dubbio questo assunto: seppur derubati della nostra identità di esseri umani, privati di ogni cosa, torturati e costretti ad assistere all’omicidio delle nostre famiglie, lotteremo per una briciola in più da mangiare, un giorno in più da vivere. La stessa fiera volontà di vivere può essere rintracciata in quasi tutte le specie animali la cui vita è minacciata, siano essi pesci, mammiferi marini, volatili o scimmie. Potrei spingermi più in là, affermando che molti animali, se non tutti, sappiano cosa sia la morte, e che quando stanno per morire ne hanno la consapevolezza. Sanno inoltre quando stanno peressere uccisi. Se questo provochi in loro orrore o disperazione, come per gli umani, è una domanda destinata a rimanere senza risposta. Di sicuro, però, coloro che hanno assistito o preso parte all’uccisione di animali riportano di aver intravisto nei loro occhi emozioni e pensieri complessi.
Alla fine dell’intervento di Singer, andai a chiedergli come potesse negare questa preferenza primaria di tutti gli animali. Quando gli feci notare come non avesse provato che gli altri animali non abbiano una preferenza per la vita, la sua risposta fu che neanche io avevo provato che l’avessero. Solo più tardi pensai che avrei dovuto rispondere: “D’accordo, ma la mia posizione filosofica non si basa esclusivamente sul fatto che non abbiano questa preferenza, al contrario della sua.”
In che senso lo specismo può essere definito un “modo di produzione”?
Lo specismo è un modo di produzione poiché è il principio organizzativo basilare per la produzione e la riproduzione della vita umana, se non altro per la sua centralità nella costituzione di identità, scopo, politiche e vita sociale umani, della cultura di genere e della divisione sessuale del lavoro. Il termine “modo di produzione” viene ovviamente da Karl Marx, che sviluppò questo concetto con Friedrich Engels per descrivere strutture storiche relativamente stabili, coerenti e ben radicate, che possono per un certo periodo organizzare la produzione materiale e la riproduzione della vita quotidiana. Il feudalesimo era un modo di produzione che ha determinato valori sociali, credo religioso e, soprattutto, la vita economica in Europa per un periodo relativamente lungo. Il capitalismo, un sistema economico che organizza società e coscienza attorno a beni e valori di scambio – ovvero attorno alla proprietà privata e alla divisione della società tra classe possidente e classe lavoratrice – ne è un altro esempio. Senza approfondire la complessa definizione marxista dei modi di produzione (né le controversie che la circondano) basti dire che Marx privilegiava l’aspetto economico su quello culturale, e trovava nella produzione e nella divisione del lavoro la chiave per capire tutti gli altri aspetti della società.
Ebbene, per me lo specismo non è solamente “un” modo di produzione, ma il modo di produzione – la modalità di produrre vita umana per eccellenza. Il mio personale uso di questa espressione tuttavia differisce significativamente da quello di Marx. Prima di tutto, come ho detto, per Marx ed Engels il modo di produzione di una società era definito dall’organizzazione della sua attività economica. L’intero apparato culturale, incluse istituzioni politiche, morale e coscienza, derivava più o meno inevitabilmente dalla forma specifica di produzione materiale attorno a cui si organizzava la vita quotidiana. Ma lo specismo è un modo di produzione in un senso molto più ampio, quasi “esistenziale”, in quanto funziona da terreno o cornice universale per la nostra identità ontologica di esseri-nel-mondo. Con questo non intendo negare la centralità o l’importanza dell’economia nello specismo. Molti studiosi, inclusi Platone, Rousseau ed Engels, hanno elaborato come l’accumulazione di beni economici si sia sviluppata primariamente sullo sfruttamento di animali addomesticati, che diventarono così la prima forma di proprietà privata. Se parliamo poi di “economia” in senso lato come sfera in cui avvengono produzione e scambio, allora la produzione e l’uccisione di esseri non-umani è una questione fondamentalmente economica. Di sicuro la produzione e riproduzione dei corpi animali ha luogo all’interno di un sistema economico: i corpi, le menti ed il lavoro animale sono sempre centrali nell’apparato capitalista, sia come materiali grezzi per la realizzazione del profitto, sia come strumenti finanziari derivati, sia, è il caso degli animali “transgenici”, come vere e proprie biofabbriche per la produzione di beni. E’ tuttavia chiaro come gli esseri non-umani siano molto più indispensabili per la società e l’identità umana di quanto suggerisca una descrizione puramente economistica del loro ruolo. I non-umani, in perenne “alterità” rispetto agli esseri umani, giocano un ruolo davvero fondamentale nelle nostre vite psichiche, inconsce e simboliche. Al pari dei lavoratori umani, alcuni animali non-umani sono ancora sfruttati per le loro fatiche come cavalli da lavoro, buoi da traino, cani da guida o antiesplosivo e via dicendo. Il nostro comportamento di umani verso i non-umani non è però del tutto analogo al comportamento della classe dominante verso la classe lavoratrice, perché i capitalisti non mangiano letteralmente i lavoratori. Così, quando descriviamo la nostra relazione verso gli esseri non-umani, dobbiamo parlare in termini extra-economistici. Ciò che gli esseri umani “ottengono” dagli altri animali non si limita ai beni materiali, è anche un sollievo esistenziale. Lo specismo è uno “scudo” metafisico, per così dire, contro ogni possibile dubbio sul nostro posto nell’universo o sulla superiorità dell’impresa umana. Noi siamo importanti perché gli altri esseri non lo sono. Lo specismo è dunque un sistema totale che produce la vita e definisce l’identità umana, ed è tanto simbolico ed esistenziale quanto un sistema materiale o economico.
Come ho detto, Marx ed Engels si riferivano principalmente ai “modi di produzione” come ai vari tipi di organizzazione del lavoro umano, per poi descrivere le stratificazioni di classe e tutta la serie di relazioni sociali dialettiche relative a tali stratificazioni. D’altra parte lo specismo come modo di produzione non può essere ridotto alle sole contraddizioni o gerarchie delle società umane, per quanto queste siano significative nelle diverse forme che può assumere. Pur essendo possibile (e necessario) parlare ad esempio di una forma capitalista di specismo, o di una forma comunista totalitaria, tutte queste modalità sono da ritenersi secondarie rispetto ad un modo primario, anzi, primordiale, di produzione della vita nel quale noi esseri umani ci comportiamo da classe tra di noi e per noi stessi; trattiamo tutti gli altri esseri come oggetti di cui appropriarci, usare e sterminare; ci arroghiamo infine il diritto politico di farlo. E’ indiscutibile che il capitalismo e il sistema di valori patriarcali che denigrano la compassione e santificano la violenza ed il sadismo siano il motore di tutti gli omicidi di massa, ma lo specismo non può essere ridotto al capitalismo o al patriarcato.  La  frattura che crea tra la cultura umana da un lato e l’essere-nel-mondo non-umano dall’altro rende la sua esistenza sostanzialmente autonoma.
Per i marxisti l’aspetto più problematico della mia definizione di specismo come modo di produzione sarà forse il mio indicare gli esseri umani in quanto tali come una classe di oppressori. Questo significa non solo che tra gli esseri umani anche gli oppressi, inclusi lavoratori, persone di colore e donne siano complici dello specismo. Significa che i nostri attuali modelli di prassi storica ed attivismo sociale sono più o meno inutili, dato che per duecento anni si sono sviluppati attorno alla nozione di un soggetto storico che arrivi a prendere coscienza e si organizzi collettivamente, qualcosa che i milioni di specie diverse di esseri non-umani non potranno mai fare (escludendo Gli Uccelli di Alfred Hitchcock, film che mi ha sempre entusiasmato come fantasia di rivoluzione non-umana). Come possiamo quindi teorizzare un cambiamento sociale rivoluzionario in questo contesto? Io ho solo presentato alcuni punti brevi e schematici, ma sta a noi che lavoriamo in questo campo sviluppare un trattamento teoretico appropriato dello specismo come modo di produzione, in particolare delle sue contraddizioni e delle sue possibili debolezze strategiche.

In molti ritengono i diritti animali e la liberazione animale totalmente indipendenti dalla liberazione umana. Quale relazione c’è tra le due? E’ possibile mettere fine alla schiavitù animale senza la liberazione umana? Lei pensa che la liberazione umana porterà automaticamente alla liberazione animale?
Gli attivisti per i diritti animali che credono possibile sconfiggere lo specismo senza sconfiggere il patriarcato come struttura di potere e sistema di socialità, o senza superare in qualche modo il capitalismo, si stanno semplicemente sbagliando. Se ci interroghiamo sulle origini della violenza verso gli altri esseri, inclusa l’estinzione forzata di migliaia di specie intere, troviamo nella maggior parte dei casi il capitalismo come sistema mondiale. Allo stesso modo, la distruzione della vita non-umana è legata ad un sistema sociale patriarcale che disprezza la compassione e che oggettifica le donne al pari dei non-umani. La relazione tra liberazione umana e liberazione animale è quindi fondamentale: possiamo fare riferimento all’importante libro di David Nibert, Animal Rights / Human Rights, che, pur essendo pervaso da un certo economismo marxista, ci fornisce un’ottima analisi sociologica di alcuni tratti storici, materiali, strutturali ed ideologici che connettono lo specismo a varie forme di oppressione umana o sociale.
La liberazione umana porterà quindi automaticamente alla liberazione animale? La risposta dipende dall’area della sinistra a cui ci rivolgiamo, e da cosa intendiamo per “liberazione umana”. Se intendiamo “esseri umani liberati dalla violenza e dalla disuguaglianza sociale e liberi di spartirsi democraticamente i frutti della natura” allora no, assolutamente no. Le tradizionali definizioni socialiste ed anarchiche di “liberazione” sono estremamente problematiche, si basano infatti su di un forte pregiudizio antropocentrico che non prende in considerazione l’esperienza e la coscienza non-umana. Nel XIX secolo Marx lanciò il famoso appello all’”umanizzazione della natura” ed a uno sviluppo economico che non mettesse in pericolo gli ecosistemi. Eppure, come Ted Benton ed altri hanno dimostrato, né Marx né altri socialisti hanno mai preso seriamente in considerazione gli interessi degli esseri non-umani, al di là della loro utilità relativa di materiale grezzo per ilnostro sistema produttivo. Purtroppo oggi la sinistra non è più vicina ai diritti animali di quanto non lo fosse un secolo fa. Anzi, se diamo un’occhiata all’operato della sinistra in Europa, Nord America e America Latina troviamo politiche alimentari incentrate sulla schiavitù e l’uccisione “sostenibile” di esseri umani, movimenti come lo Slow Food, l’acquacoltura (allevamento intensivo di pesci), il locavorismo etc. In un articolo della rivista statunitense Nation dedicato alle politiche alimentari globali dell’ultimo anno nessuno dei vari contributi faceva il minimo riferimento agli animali o criticava gli allevamenti.
Sarebbe ahimè troppo facile immaginare un progetto di sinistra le cui istanze liberazioniste vadano nella stessa direzione del tradizionale umanismo radicale e liberale per quanto riguarda la natura e gli altri esseri che ne fanno parte. Tralasciando la squallida e implacabile misoginia della PETA, vedo generalmente molta più apertura da parte del movimento per i diritti animali nel fare proprie cause di giustizia sociale tradizionalmente di sinistra, che da parte degli attivisti di sinistra nel ripensare il loro consumo di carne, per non parlare dello specismo come sistema totale. Ci sono diverse ragioni per la riluttanza generale della sinistra ad occuparsi della questione animale: in parte dipende dal suo maschilismo e dalla sua avversione ad accettare l’empatia e l’amore come elementi necessari per la nostra prassi. Questa avversione è legata all’ambivalenza storica della sinistra e al malinteso sul problema della violenza. Tra le persone di sinistra, i più non vedono alcuna contraddizione tra la creazione di un futuro anarchico o socialista o anche solo democratico e, allo stesso tempo, l’allevamento e l’uccisione degli animali da fattoria, la sperimentazione animale o portare al circo i loro bebè progressisti.
Perché la sinistra dovrebbe preoccuparsi degli animali? Sappiamo che gli umani giustificano la violenza che si infliggono tra di loro con la scusa dell’”animalizzazione” – individuando cioè negli altri esseri la fonte di un valore negativo assoluto. Sappiamo anche che, storicamente, la maggior parte delle tecnologie per la violenza e l’oppressione furono usate prima su popolazioni ed individui non-umani per poi essere sfruttate su quelli umani – dalla fionda, l’arco e le frecce (usati per cacciare), al filo spinato, ai mattatoi meccanizzati, allo Zyklon B (un insetticida) – elementi usati dai nazisti per creare i campi di concentramento. La riproduzione e il controllo degli animali da reddito diventarono il modello per la schiavitù umana; lo sterminio dei “parassiti” in agricoltura ispirò lo sterminio di gruppi rivali in guerra. Sappiamo anche, infine, che la crisi ecologica globale è strettamente legata allo specismo come sistema di essere-nel-mondo. Non mi riferisco solo ai danni ecologici catastrofici che l’agricoltura animale sta recando alle foreste pluviali, alle risorse idriche e alla biosfera in generale con i gas serra. Mi riferisco al fatto che lo sviluppo e l’industria umana nella loro interezza presuppongano che gli altri esseri con cui condividiamo la terra non abbiano importanza, non abbiano valore. Guardiamo fuori dalla finestra e vediamo la “Natura” – un’astrazione che sta a significare semplicemente “un posto senza umani”. Così come gli europei avevano svuotato gli altri continenti dagli esseri umani, prima concettualmente riferendosi ad essi come “selvaggi”, poi nella pratica con il colonialismo e l’accumulazione primitiva, la società umana svuota il mondo intero dagli esseri viventi non-umani e dalle loro miriadi di coscienze e culture, prima di tutto nel dominio del pensiero. Così l’idea che sia possibile una vera liberazione umana senza una liberazione animale tradisce un’ignoranza del valore intrinseco della coscienza, dell’essere-nel-mondo e delle forme di cultura non-umane, ma soprattutto della storia della violenza umana e del ruolo degli animali e dell’animalizzazione nei sistemi sociali e semiotici umani.
Lasciando da parte i collegamenti strutturali e discorsivi/semiotici tra lo specismo e le modalità di violenza tra umano e umano, aggiungerò soltanto che l’idea di poter raggiungere una liberazione genuina per noi stessi sulla base della schiavitù o della non libertà di miliardi di altri esseri è incoerente “metafisicamente”, a livello esistenziale. Anche se fosse possibile creare una società egualitaria, socialista o comunista accanto a mattatoi e laboratori che traboccano di topi in cattività e di scimmie cappuccine, alla fine dovremo pur sempre fare i conti con noi stessi, e chiederci che razza di esseri siamo? Che razza di esseri, vale a dire, costruirebbe intenzionalmente una società sulla base del degrado e della violenza per poi definirsi “libera”? In che modo potremo mai illuderci che una tale società sia “liberata”? L’idea che potremmo o dovremmo fondare “la società nuova” su di un sistema di violenza totalitaria, terrore e tecnologie di sterminio di massa è pura follia, un principio di coscienza ed attivismo storico che è completamente auto-contraddittorio per non dire grottesco. Di certo dobbiamo alzare i nostri obiettivi, e concepire l’emancipazione umana in termini molto più ampi di quanto finora ci è stato possibile, intrappolati nella nostra hybris antropocentrica. Una parte sostanziale della nostra alienazione è dovuta all’auto-straniamento rispetto alla nostra stessa condizione di animali incarnati, sensoriali, sofferenti. Quando umiliamo ed uccidiamo gli altri animali, e screditiamo la nostra animalità come non essenziale a chi e che cosa siamo, stiamo anche denigrando delle caratteristiche importanti dell’esistenza umana.
Qual’è la relazione tra antispecismo e veganesimo?
 Il veganesimo è letteralmente “il minimo che possiamo fare” per gli altri animali. Ad una femminista non verrebbe mai in mente di aiutare degli uomini ad aggredire sessualmente una donna; ad un attivista bianco per i diritti civili non verrebbe mai in mente di fare battute razziste (o di partecipare ad un linciaggio). Chiunque abbia a cuore la vita e la morte dei non-umani non dovrebbe quindi mangiare o indossare prodotti di origine animale. Il veganesimo rientra nell’ambito di una coscienza antispecista. Detto ciò, non sono personalmente d’accordo con il fatto che sia di per sé una forma di attivismo, anche se praticato in certi modi può esserlo (ad esempio come opportunità di stimolare ed ampliare la coscienza dei non vegani). Conosco molti vegani che si astengono “religiosamente” (o meglio devotamente) dal consumo di qualsiasi tipo di prodotto animale. Io stesso sono uno di loro. Queste pratiche però non cambiano nulla per gli animali, e diventare vegani noi stessi non porterà necessariamente ad un cambiamento generale nella coscienza pubblica. Pur essendo convinto che dovremmo tutti comportarci da buoni Kantiani ed evitare l’ipocrisia e la cattiva fede, a volte mi chiedo se non stiamo cadendo nel tranello di un “pensiero magico” che ci illude che per migliorare la società e “trasmettere il messaggio” sia sufficiente cambiare la nostra dieta o evitare di portare i nostri figli allo zoo e all’acquario.
Mi preoccupo anche di come tutto questo interesse verso la dieta vegana possa distogliere l’attenzione dalle politiche implicite di sterminio, poiché sposta il fulcro del discorso dalla produzione al consumo. Il problema, ovviamente, non è “mangiare la carne” – è l’uccisione degli animali al fine di mangiarla. Il nostro movimento ha bisogno di darsi da fare per creare un miglior dibattito pubblico sullo specismo in sé, vale a dire in primo luogo sul sistema totale di violenza che caratterizza le nostre relazioni con gli altri esseri, e in secondo luogo sull’abolizionismo, la cura per la malattia. Non è difficile capire perché gli attivisti siano tanto legati al veganesimo, in questo periodo storico in cui le modalità di azione e resistenza collettiva sono in declino, e il capitalismo ha penetrato le coscienze tanto che l’unico modo in cui possiamo concepire un cambiamento sociale sia attraverso un’altra forma di consumismo. Penso sia un errore concentrarsi soltanto su di un cambiamento di dieta nell’ottica di un’esclusione virtuale dello specismo dal sistema mondiale. La vulnerabilità che deriva da questo approccio si riflette oggi nella crescita e nel successo spettacolare dei vari movimenti Slow Food e locavoristi, che hanno similmente enfatizzato un cambiamento nei modelli di consumo come chiave alla trasformazione sociale, ma con lo scopo di stabilizzare “la carne” come bene naturale. Eppure né il locavorismo né il veganesimo possono mettere in crisi da soli il potere dei mezzi di produzione: il capitalismo è più che felice di vivere con venti milioni di vegani e cinque miliardi di mangiatori di carne.

Pensa che gli attivisti per i diritti animali dovrebbero unirsi al movimento anticapitalista “se e solo se” tutti gli attivisti umanisti diventassero loro stessi vegani?
 E’ proprio il contrario, dobbiamo unirci al movimento anticapitalista per mettere al suo centro gli interessi degli animali, così come dobbiamo verificare che gli eventi di sinistra siano vegani, che includano delle commissioni su tematiche animali, etc. Gli intellettuali impegnati nell’antispecismo hanno una responsabilità speciale nello spingere i colleghi di sinistra e femministi ad analizzare le loro posizioni in merito agli esseri non-umani – in merito a chi sono, alla violenza su di essi. Con il nostro isolamento invece ci assicuriamo che la comprensione che la sinistra ha di sé non cambi mai. Inoltre non c’è la minima possibilità che il nostro movimento si faccia strada fintanto che il capitalismo non sia raso al suolo o almeno indebolito, visto che è il responsabile della grande, grande maggioranza della sofferenza animale nel mondo. Quindi dobbiamo fare tutto il possibile per assicurarci che questo movimento abbia successo.
Come è arrivato ad occuparsi di liberazione animale?
Quando ero al college ho letto Liberazione Animale di Peter Singer, che mi ha convinto a diventare vegetariano. Ma questo non risponde in realtà alla sua domanda, perché spesso andiamo alla ricerca di libri e punti di vista che corrispondano a qualcosa che sentiamo già dentro di noi. Il personale è politico, come si dice, e la mia storia personale ha molto a che vedere con il mio interesse per la liberazione animale. A questo proposito, nel film sui diritti animali The Witness, c’è una scena interessante in cui il protagonista Eddie Lama descrive come una sera fu picchiato con violenza per strada, sentendosi completamente isolato e solo con il suo trauma. Lama traccia poi un parallelo tra quell’esperienza e la sua empatia verso gli animali che noi come società traumatizziamo. Allo stesso modo sono convinto che i traumi nella mia crescita, in particolare il razzismo e la violenza che ho sperimentato quale unico asiatico-americano della scuola (i genitori di mio padre emigrarono negli USA dal Giappone all’inizio del XX secolo) mi abbiano sensibilizzato alla sofferenza degli altri offrendomi una visione generale della natura dell’emarginazione e della violenza collettiva, sia verso gli esseri umani che verso gli altri esseri. Sospetto che in molti nel nostro movimento potrebbero condividere storie simili sullo sviluppo della consapevolezza verso le persone non-umane attraverso le loro esperienze di oppressione, emarginazione o trauma.
Un secondo elemento, senza dubbio, è stato il fatto che la mia famiglia ha sempre avuto cani e gatti, e li trattava bene. Vivere a così stretto contatto con altri esseri mi ha educato non solo alle potenzialità degli esseri-nel-mondo non-umani – alle straordinarie personalità e capacità di questi esseri – ma anche alle potenzialità della comunicazione, della compagnia e dell’amore tra specie. Nessuna delle due esperienze però – crescere da emarginato e vivere con gli animali – mi ha spinto a riflettere sistematicamente sulle nostre relazioni con gli altri esseri: da qui l’importanza leggere il libro di Singer nel mio secondo anno di college. Prima di aver scelto Liberazione Animale avevo già sviluppato un notevole rispetto per la filosofia morale di Singer, avendo letto il suo famoso saggio Carestia, Ricchezza e Morale (sulla crisi alimentare del Bangladesh nel 1970) per un corso di filosofia. Ero quindi aperto alle sue opinioni su un argomento che ho sempre faticato a digerire – in tutti i sensi – quale l’etica del consumo di carne. Tuttavia, anche dopo la lettura di Singer, ho impiegato degli anni per iniziare a vedere oltre la questione del vegetarianesimo e riconoscere lo specismo come una struttura violenta, addirittura come un modo di produzione della vita. In questo caso devo ringraziare la teoria critica, il movimento femminista e più in generale la cultura di sinistra, per avermi istruito sulla natura del potere e dell’ingiustizia e sui modi in cui si possono impadronire di una società.
 Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando ad un breve libro sul “locavorismo” e sulle politiche dei movimenti per l’agricoltura sostenibile. La mia tesi è che questo movimento, pur non rappresentando nessun tipo di minaccia per l’agricoltura industrializzata, la rappresenti invece per l’abolizionismo e per i diritti animali in generale. C’è un altro libro che ho iniziato ma su cui devo tornare a lavorare,  On the Animal Question, in cui provo a riprendere il discorso iniziato da Marx nella Questione Ebraica e nei Manoscritti del 1844, ad esempio il suo tentativo di stabilire una base filosofica per l’emancipazione umana universale. La mia idea è di ripensare la libertà “universale” ponendo la coscienza non-umana al centro anziché alla periferia del nostro modo di pensare all’emancipazione e alla prassi. Infine ho iniziato un libro più lungo che riguarda la tecnologia e l’ordine tecnologico all’interno del capitalismo, ma per ora non è tra le mie priorità.

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