sabato 31 agosto 2013

America

La maledizione dell'America

Alle armi anche il presidente Nobel per la pace. Odiata e indispensabile, la condanna dell'America a finire in prima linea. Non potrà nulla l'Onu, un sacco vuoto usato spesso per nascondere cattive intenzioni. La prepotenza americana è l'indicatore inverso dell'impotenza altrui
WASHINGTON - La condanna e il privilegio di chiamarsi America. La felice maledizione della propria "eccezionalità". Stanno conducendo di nuovo gli Stati Uniti verso un'azione militare che nessuno a Washington davvero vuole, ma che tutti sanno essere ormai inevitabile.

Il paradosso storico di una nazione costruita per restare alla larga dai grovigli politici del mondo, per evitare ogni legame con altre nazioni oltre gli oceani, come scrisse nel proprio testamento spirituale il padre della patria George Washington, si ripresenta con implacabile puntualità in Siria.

È uno spettacolo insieme spaventoso e affascinante, come assistere a un'eruzione vulcanica o alla discesa di una valanga, vedere muoversi oggi con Barack Obama gli stessi meccanismi che negli ultimi 150 anni, da quando gli Stati Uniti sigillarono nel sangue fraterno la loro unità, hanno portato presidenti dopo presidenti, repubblicani come democratici, isolazionisti o interventisti a essere risucchiati nel gorgo delle crisi internazionali. Anche in Siria, come nei canali di Fiandra, come tra le dune della Normandia, come nelle paludi Indocinesi, come nei deserti d'Arabia, come in dozzine di altri angoli del mondo spesso sconosciuti anche ai soldati mandati a morire per loro, l'America non può più sfuggire al destino di essere America.

La spiegazione di comodo, quella che la faciloneria dell'ideologismo antiamericano sta risfoderando anche in questa giorni, è che l'interventismo Usa sia soltanto il braccio armato degli interessi commerciali, industriali e oggi finanziari degli americani, mentre una piccola, ma tenace setta di allucinati arriva ad accusarli addirittura di creare gli incidenti che giustificano l'azione armata, dalla distruzione delle Torri Gemelle fino alla fornitura di gas ai ribelli siriani per "autogasarsi" e così provocare la spedizione punitiva contro Assad. Ma se è vero che nella storia del mondo, come in quella americana, non mancano episodi di false provocazioni, come l'esplosione del Maine nel porto dell'Avana o l'incidente immaginario nel Golfo del Tonchino, spiegare con formule paleo marxiane o neo complottiste perché gli Usa si lascino risucchiare in azioni armate dalle quali non traggono né conquiste territoriali né bottini di guerra non spiega niente.

Non spiega soprattutto la specificità e la diversità della espressione di potenza militare come esercitata per gli ultimi 150 anni dagli Stati Uniti. Non ci sono precedenti, nella storia del mondo, di superpotenze che consumino tesori immensi e brucino migliaia di vite senza pretendere annessioni, tributi, cessioni totali di sovranità dai nemici vinti, come ha fatto l'America dopo il doppio intervento nella guerra dei Trent'Anni in Europa, fra il 1914 e il 1945. E neppure l'antimericano più allucinato può sostenere che dai 15 anni di emorragia in Vietnam, dai dodici in Afghanistan e dai dieci in Iraq, Washington abbia tratto vantaggi imperiali. Il Vietnam divenne interamente e trionfalmente comunista, l'Iraq è sempre più un satellite iraniano. E l'Afghanistan sta tornando a scivolare tre le mani del Taliban. Tutto questo mentre nel 2008, quando l'imperialismo yankee avrebbe dovuto conoscere la propria apoteosi, gli Stati Uniti hanno rischiato il collasso economico totale.

Eppure, di fronte a tragedie inqualificabili come quella in atto fra Assad e i suoi nemici, si alza immediatamente la richiesta di intervento americano, perché anche i meno teneri verso gli Usa sanno che se non si muovono i Marines, le superportaerei, i Seals, i missili Cruise, i droni del Pentagono, non si muoverà nessuno. Non potrà nulla l'Onu, che è un sacco vuoto di intenzioni politiche e di forza di persuasione che viene usato per nascondere la propria impotenza o le proprie cattive intenzioni, come quelle di Russia e Cina. Segretamente, inconfessabilmente, si punta sull'"eccezionalismo" americano, sulla disponibilità a intervenire con la violenza per impedire violenza, riservandosi naturalmente il diritto di accusare gli Usa di ogni nefandezza, a posteriori.

La prepotenza americana è l'indicatore inverso della impotenza altrui. Di fronte al vuoto di volontà, di determinazione, di semplice capacità d'azione, Washington si lascia risucchiare ancora e ancora, pur sapendo, come anche oggi i generali stanno dicendo a Obama, che una spedizione punitiva contro Assad è un salto nel buio dove i rischi superano di molto i possibili vantaggi. Ma l'America non può fare a meno di essere l'America, di sentirsi chiamata a rispondere e a indossare la responsabilità di essere insieme il protettore e la vittima, il poliziotto e il killer nella viltà del mondo. Anche Obama, il guerriero riluttante, il titolare di un Nobel per la Pace che fece sorridere anche lui nella evidente assurdità, sta camminando, come gli eroi di tragedie greche trascinati dal destino, verso quegli errori che riconobbe e rimproverò ai predecessori. Non subisce certamente la seduzione del teorico di quel "Nuovo Secolo Americano" che imbambolò Bush il Giovane, ma non ha scampo. Non c'è un'altra America, ma soltanto questa, la somma di tutti i successi e i disastri della storia contemporanea, sempre più sola, sempre meno amata, sempre più indispensabile.

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